L’analisi dei mercati condotta da Le Fonti nel mese di ottobre evidenzia come alcune manovre contribuiscano a creare un clima di incertezza negli investitori
Le vicende politiche, che hanno visto il presidente Trump affrontare l’accusa di impeachment, hanno frenato l’apprezzamento dell’S&P 500, l’indice più rappresentativo della borsa americana, facendolo allontanare dal massimo storico segnato lo scorso 26 luglio a 3.027 punti.
È aumentato anche lo scetticismo per l’effettiva capacità delle banche centrali di far aumentare l’inflazione. Il 17 settembre, infatti, la FED è dovuta intervenire d’urgenza con due immissioni di liquidità per riportare la calma sui tassi a breve. Il tasso overnight era aumentato in modo allarmante, arrivando al 10%: un chiaro segnale delle difficoltà finanziarie delle banche. Il giorno dopo, come previsto, la FED ha tagliato i tassi d’interesse di 25 pb, portandoli nell’intervallo compreso fra l’1.75% e il 2%. Nel suo discorso, Powell non ha fornito chiari segnali sulla possibilità di nuovi tagli nel corso dell’anno.
Gli investitori rimangono cauti di fronte all’incertezza delle prospettive economiche statunitensi, dopo che i dati più recenti hanno evidenziato un rallentamento consistente. L’indice ISM, infatti, è sceso inaspettatamente a 47.8 punti, la rilevazione più bassa da giugno 2009. Dopo le manifatture, il rallentamento investe anche il settore terziario, la porzione più consistente dell’economia americana.
La FED prevede un calo del PIL per l’anno in corso al 2.2%, dal 2.9% del 2018.
Nella prima settimana di ottobre, l’S&P 500 perde oltre il 4% mensile, appesantito dai crescenti timori per una recessione.
I dati positivi sull’occupazione fanno rimbalzare le quotazioni dai minimi mensili segnati in area 2855 punti. Nel mese di settembre, l’economia statunitense ha creato 136.000 posti di lavoro, meno del previsto, ma la partecipazione al mercato del lavoro è rimasta alta e il tasso di disoccupazione è sceso dello 0.2% a 3.5%, il minimo da cinquant’anni. L’economia è cresciuta poco, ma a preoccupare maggiormente sono i salari, rimasti invariati su base mensile. Per l’anno, l’aumento è stato solo del 2.9%, il più basso da luglio 2018. La debole crescita dei salari continua a mantenere l’inflazione ben distante dall’obiettivo del 2%. I mercati si aspettano un altro taglio dei tassi di un quarto di punto nella riunione del FOMC del 29-30 ottobre, sebbene dopo i dati sull’occupazione la probabilità sia scesa a circa il 79%.
Sul fronte valutario, il dollaro a settembre si è portato sui massimi pluriennali contro la maggior parte delle valute mondiali, e nei confronti della moneta unica ha chiuso il mese con un guadagno, da inizio anno, del 5%. Per il biglietto verde è stato l’ottavo mese positivo del 2019.
Si è rafforzato anche il Dollar Index, che rappresenta la forza del dollaro contro il paniere delle sei principali valute mondiali, tornato ai massimi da oltre due anni. Non sono valsi a frenare il rally i ripetuti appelli di Trump a favore di un dollaro debole che renda le merci americane più competitive.
L’apprezzamento del dollaro è stato favorito dall’atteggiamento risk-off generato dalle tensioni geopolitiche e, in Europa, dalla situazione di grande incertezza che accompagna la Brexit e dalle indicazioni di profonda debolezza che arrivano dai dati più recenti, soprattutto da quelli tedeschi. Il settore privato tedesco ha registrato a settembre la prima contrazione da oltre sei anni, in seguito al rallentamento delle manifatture e alla perdita di slancio dei servizi.
Il PMI composito, che include anche le aziende dei servizi, è sceso sotto la soglia dei 50 punti che separa la crescita dalla recessione.
Nonostante il forte rallentamento evidenziato dai dati più recenti, Angela Merkel ha resistito alla richiesta dell’Eurogruppo di redigere un pacchetto di stimoli per il suo Paese. Insieme ai Paesi Bassi, la Germania è uno dei Paesi dell’Eurozona più ricchi di liquidità. Stimoli fiscali introdotti dai governi, secondo la Commissione europea, stimolerebbero la crescita ed avrebbero effetti collaterali indesiderati minori rispetto ad un nuovo intervento da parte della BCE.
Non aiuta a risollevare l’umore degli investitori nemmeno la sentenza dell’Organizzazione mondiale per il Commercio che attribuisce agli Stati Uniti il diritto di applicare dazi sui beni europei come compensazione per gli aiuti pubblici concessi ad Airbus. In assenza di accordi, i dazi entreranno in vigore il 18 ottobre e colpiranno anche l’Italia, la quale esporta negli USA parmigiano, pecorino e prosciutto.
Il presidente Mattarella, in visita alla Casa Bianca, ha auspicato una collaborazione che eviti ritorsioni penalizzanti per entrambi i Paesi. Trump, dal canto suo, ha lasciato aperta la possibilità di un trattamento preferenziale per l’Italia, Paese tradizionalmente amico degli USA. Del resto, i dazi WTO escludono già i vini italiani. Non sembrano possibili, invece, aperture per i dazi sulle auto e i componenti UE, sui quali una decisione è attesa a metà novembre.
Il rischio è che si inizi un’altra guerra commerciale, questa volta con l’Europa, proprio mentre le trattative con la Cina giungono ad un accordo. Infatti, l’11 ottobre, Stati Uniti e Cina hanno concordato la prima fase di un accordo sostanziale. Come parte dell’accordo, la Cina ha accettato di rimuovere completamente i limiti alle partecipazioni straniere in futures, fondi di investimento e società mobiliari. Il provvedimento risponde alla volontà della Cina di internazionalizzare il proprio mercato dei Futures e di farne un centro di prezzi internazionale per le materie prime.
La notizia ha fatto rimbalzare le azioni americane, supportate dal settore tecnologico, il più sensibile alle tariffe. Il Dow Jones ha guadagnato l’1.2%, guidato da Apple che è salita ai massimi storici. I guadagni settimanali sono stati dello 0.9%, mentre il Nasdaq e l’S&P 500 hanno chiuso la settimana in rialzo, rispettivamente, dello 0.9% e dello 0,6%. Le vendite di dollari fanno rimbalzare l’euro che si riporta a 1.1170, a ridosso dell’area di resistenza sui massimi di agosto.
L’accordo sino-americano ha risollevato il sentimento degli investitori per le attività più rischiose, a scapito dei beni rifugio, compreso l’oro. Nella giornata dell’11 ottobre, infatti, il metallo giallo ha perso oltre l’1%, registrando il più grande declino settimanale da marzo.
Segnali di distensione sono arrivati anche dal fronte Brexit, con il Regno Unito e l’UE che hanno mostrato apertura per un possibile accordo entro la fine di ottobre.
Gli analisti affermano che l’oro è ancora rialzista nel lungo termine e l’accordo sino-americano dovrebbe far aumentare la domanda cinese, dal momento che la Cina è il più grande acquirente di oro al mondo.
Commento a cura di Alex Soldati, giornalista Le Fonti Tv