Guerra commerciale, ecco come reagisce la Cina

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Le tariffe commerciali di Trump a oggi (tariffa del 25% su 50 miliardi di dollari di esportazioni cinesi più il 10% su altri 200 miliardi di dollari) ridurranno solo marginalmente la crescita del PIL cinese di circa 30 – 40 punti base.

Se la tariffa del 10% su 200 miliardi sarà portata al 25% da gennaio 2019, come promesso da Trump, allora la Cina dovrà proteggersi dal rallentamento della crescita dall’attuale 6,6% a/a a circa il 6%. Un calo potenziale maggiore richiederà quindi una dose maggiore di risposte dal lato della politica economica. Finora, abbiamo visto Pechino iniziare con un allentamento monetario prima di ramificarsi verso misure fiscali. Per quanto riguarda il primo tipo di misure, riteniamo che si tratti ancora di un alleggerimento “misurato” – essenzialmente incoraggiando le banche a concedere prestiti a settori mirati, come le imprese private e i progetti infrastrutturali, ma bilanciando la crescita del credito ombra. Nel complesso, il totale dei crediti in circolazione è migliorato, ma non eccessivamente in termini di nuovi flussi.

Sul fronte fiscale, la Cina predilige la prudenza, come nella politica monetaria. Ma sembra sempre più difficile limitare la flessibilità in quanto la leva finanziaria già elevata della Cina mette un vincolo alla portata dell’allentamento monetario. Ciò detto, i tagli fiscali e gli incentivi forniti finora sono stati piccoli aggiustamenti, come l’innalzamento della soglia di reddito imponibile e le detrazioni fiscali sulle spese per l’istruzione dei bambini e le spese di assistenza agli anziani. La buona notizia è che la Cina ha speso significativamente meno di quanto previsto nel suo piano di bilancio nei primi due trimestri, iniziando a spendere di più in agosto-settembre. Sospettiamo che l’obiettivo originario di disavanzo di bilancio fissato per il 2018, pari al 2,6% del PIL, sarà innalzato con maggiori misure fiscali. Se il risultato effettivo sarà come il livello del 2017, di circa il 3,7% del PIL, la Cina può permettersi di scendere in un deficit fiscale trimestrale di circa il 6,4% del PIL nel quarto trimestre del 2018 senza preoccuparsi troppo dei grandi scostamenti fiscali. In altre parole, Pechino può permettersi maggiori misure di sostegno fiscale, e alcuni importanti consulenti politici alludono al fatto che gli sgravi pari all’1% del PIL per il prossimo anno non saranno troppo impegnativi.

Inoltre, Pechino ha formalizzato l’ammorbidimento dei limiti agli investimenti esteri in una serie di settori, da quello bancario all’agricoltura, riducendo la sua cosiddetta “lista nera” di settori in cui gli investitori stranieri sono limitati o del tutto banditi. Le principali modifiche comprendono la rimozione dei limiti alla proprietà estera delle banche, l’abolizione dei limiti di proprietà per le società di intermediazione e di assicurazione nel 2021 e per le società produttrici di autovetture nel 2022. La Cina aprirà anche parte del suo vasto settore delle commodity. Alcuni investitori vedono questi cambiamenti come un colpo diretto alla controversia commerciale fra USA e Cina, dato che gli Stati Uniti e l’UE hanno ripetutamente criticato la mancanza di apertura dell’economia nazionale cinese. Queste misure comprendono barriere all’ingresso e trasferimenti tecnologici forzati nell’ambito di un accordo per le imprese a cui è concesso l’accesso al mercato.

Questi accordi potrebbero rappresentare la luce in fondo al tunnel solo se i benefici per gli USA si concentrano sulla conquista dell’accesso al mercato cinese, costringendo la Cina ad acquistare più prodotti statunitensi. Se l’obiettivo di Trump, come molti osservatori ritengono, è quello di isolare la Cina, limitare il suo principale rivale mondiale, e infine sabotare il sistema di sovvenzioni statali e il controverso piano “Made-in-China 2025”, allora queste misure potrebbero non risolvere a fondo i problemi alla base della guerra commerciale sino-americana.

 

A cura di Anthony Chan, Chief Asia Investment Strategist di Union Bancaire Privée (UBP)

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