a tempo è scoppiata la moda del crowdfunding, una modalità che permette di investire in progetti e società di tutti i generi. Nato negli Usa, il fenomeno ha preso piede grazie a piattaforme come Kickstart o Indigogo, che offrivano l’opportunità di venire a conoscenza progetti imprenditoriali innovativi, e di investirvi. Se in un primo momento i progetti erano supportati da business plan completi e accurati, che garantivano una certa solidità del progetto, successivamente il fenomeno si è esteso e il processo di selezione è diventato via via più semplice. In Italia il crowdfunding ha preso una connotazione differente. Ad oggi le piattaforme presenti presentano progetti di startup o newco davvero variegati. L’obiettivo? Raccogliere fondi, ovviamente, ma soprattutto permettere la quotazione all’Aim. In cambio dell’investimento su queste piattaforme si leggono analisi e business plan che fanno intravedere grandi potenzialità nella crescita delle aziende e quindi grandi opportunità di ritorni.
Ma è davvero così? Dal 2012 a oggi in Italia sono state registrate e aperte oltre 12mila startup, ma di queste 9 su 10 chiudono e, secondo un recente studio, sono stati raccolti 77 milioni di euro solo nel 2020. Anche prendendo come assodato, e spesso non lo è, che le piattaforme di crowdfunding facciano davvero un’analisi accurata del business e della sua solidità, il rischio per un investitore rimane alto, perché non ha alcuna possibilità di influire sulle scelte aziendali, a meno che non acquisti una grossa partecipazione. Ma cosa succede dopo il round di raccolta? Beh, nella maggior parte dei casi nulla. L’azienda prova a portare avanti il suo progetto e nella maggior parte dei casi fallisce miseramente. In altri casi, le società vengono quotate sull’Aim, un mercato fortemente illiquido. E dopo un primo attimo di euforia generato dall’aumento del prezzo nominale del titolo dopo la quotazione, l’investitore non riesce a vendere a nessuno, rimanendo con un investimento di fatto immobilizzato. Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che grazie all’introduzione dei Pir ci sono più stimoli anche per questo mercato, e quindi più opportunità per l’investitore, ma dopo un primo anno di grande raccolta sui Pir, lo strumento si è completamente fermato. Tornando al crowdfunding, l’unica vera speranza per coloro che hanno investito è che una big company «noti» il progetto e decida di acquistare la società. A questo punto l’investitore potrà forse rientrare del suo investimento con un piccolo margine di guadagno.
Nell’ultimo anno il crowdfunding è stato utilizzato soprattutto per finanziare progetti di real estate, dove la spinta all’innovazione è al minimo. In pratica ormai viene usato come forma sostitutiva al finanziamento bancario. Un sistema che garantisce all’imprenditore, o in molti casi presunto tale, di avere accesso a liquidità a tassi di interessi inferiori. A rimetterci è l’investitore, che molto difficilmente potrà vantare garanzie paragonabili a quelle richieste da un istituto bancario. Insomma il crowdfunding, pur partendo da obiettivi nobili e vantaggiosi, è stato interpretato come un modo per fare l’imprenditore con i soldi degli altri, partendo da una semplice idea che se pur geniale, e in molti casi non lo è, rimane tale fino al pieno sviluppo del progetto. Alle attraenti piattaforme che propongono questi investimenti, rimarrebbe il compito di analizzare il business nel concreto e offrire una serie di servizi, remunerati da subito, alle società che cercano finanziamenti. Rimane il dubbio di come piccole strutture di servizi possano avere competenze così approfondite e variegate da poter compiere analisi su mercati tanto differenti da loro. I numeri bastano? La risposta è no, altrimenti qualsiasi business potrebbe essere facilmente replicato con successo, rendendo di fatto attuabile la teoria della concorrenza perfetta.
Tratto da Asset Management luglio – agosto 2021