Chiunque sia transitato da studi sui mercati finanziari a cavallo del secolo, si sarà imbattuto nel seguente assunto: “nel lungo termine i titoli value sono destinati a sovraperformare i titoli growth, in quanto in quest’ultimo caso gli investitori sono portati a sovrastimare, e dunque pagare troppo, le incerte prospettive di crescita futura delle società”.
Come però accade spesso, in finanza i totem, ancorché corroborati da raffinati studi accademici, possono essere improvvisamente spiazzati dagli eventi. Maggio 2007 ha marcato il punto di massimo del Value rispetto al Growth: da allora, e soprattutto dall’ultima fiammata di fine 2016, i titoli ad alta crescita hanno dominato i value quasi senza interruzioni, aiutati in questo da vari fenomeni di portata globale come le difficoltà strutturali delle banche, i bassi tassi d’interesse, le modifiche al modello di crescita cinese e l’affermarsi progressivo e sempre più egemone dei big della tecnologia e del comparto sanitario. In fondo la stessa sovraperformance degli Stati Uniti sull’Europa, in corso da anni, è un riflesso del fatto che ormai il 50% dello S&P500 sia concentrato su tecnologia, sanità e comunicazione, mentre al contrario la porzione di value sugli indici europei si mantiene significativa.
Più in dettaglio, al 23 marzo gli indici avevano un rapporto prezzo/utili molto al di sotto della media, in taluni casi vicino ai minimi storici. Da quella data l’effetto di rally di mercato e revisioni al ribasso delle aspettative sugli utili (10% negli USA e in Asia, fra il 15 e il 25% in Europa) ha riportato le valutazioni in linea con la media degli ultimi 15 anni (Europa e Paesi Emergenti) o oltre (S&P e soprattutto Nasdaq). A questo punto la domanda è: il rally è giustificato? Di cosa tengono conto le valutazioni?
L’avvento del coronavirus non ha fatto altro che esacerbare ulteriormente il processo, aumentando la divaricazione fra questi due mondi: da inizio anno, mentre il comparto growth statunitense è tornato sulla linea di galleggiamento, lo stile value registra un arretramento del 18% (27 aprile). Il motivo è abbastanza banale: i modelli di business che reggono meglio in tempi di pandemia e distanziamento sociale sono ancora una volta quelli dei titoli tecnologici, della ricerca sanitaria e della comunicazione. Ciò che dobbiamo chiederci a questo punto, davanti a prezzi passati in cinque settimane da 18 a 26 volte gli utili nel caso del Nasdaq, è se questo processo strutturale non sia suscettibile di interruzioni e rotazioni.
Indubbiamente gli spazi di apprezzamento del growth si fanno più risicati, mentre il value ha più potenziale di recupero, ma non ancora tutti i “pianeti allineati”. Al momento l’interpretazione dei mercati si sta orientando sempre di più nella direzione di una correzione intensa ma rapida, ben ammortizzata dall’intervento di governi e Banche Centrali. Il passo successivo, forse ancora prematuro allo stato attuale, è invece subordinato al fatto che la ripartenza non subisca troppi intoppi, aprendo ad un terzo trimestre di rimbalzo economico. Se le notizie saranno confortanti, questo potrebbe favorire un riprezzamento del value e possibili rotazioni, agevolate dalla sua forte componente ciclica e da valutazioni a sconto.