Come SoftBank ha acquistato miliardi di dollari di derivati in una serie di operazioni che hanno alimentato il rally dei titoli big tech prima di un brusco risveglio
Articolo tratto dal numero settembre/ottobre di Asset Management
Scoop o sgup? Balena bianca o bufala? La verità sta nel mezzo. È così che di solito si dice in questi casi. Ma il mondo dei mercati finanziari è diverso. Come direbbe Marty Schwartz: «Ascoltate soltanto ciò che il mercato vi dice in questo momento. Dimenticate ciò che pensavate vi stesse dicendo cinque minuti fa». Insomma, la sostanza è: certo, potrebbe essere tutto vero. La rilevanza? Mondiale. Ma anche se fosse, ormai è acqua passata. E quindi, molto meglio guardare avanti. In questo caso invece guardare anche un po’ indietro può essere utile. Perché il 7 settembre scorso, il Financial Times titolava così: «SoftBank unmasked as “Nasdaq whale” that stoked tech rally». Che in italiano si traduce: SoftBank smascherata come “la Balena del Nasdaq” che ha scatenato il rally dei titoli tech». Una bravata, è così che l’hanno anche definita i media. Tuttavia si tratta di una vicenda ancora da chiarire al 100% e su cui, probabilmente, verrà fatta definitivamente chiarezza solo in futuro. E allora partiamo dai protagonisti della storia. Due, sostanzialmente. C’è SoftBank, società di investimenti giapponese. E poi c’è il Nasdaq Composite, l’indice americano dei titoli tecnologici che, dopo i tonfi dei mercati causa covid, ha guadagnato un’irreale 80% nel giro di sei mesi. Un’impennata per molti immotivata. Per qualcuno, un rally quasi sospetto. Negli ultimi anni, la compagnia nipponica si è dedicata soprattutto alle startup del settore tecnologico, con investimenti importanti attraverso il fondo Vision Fund, valore: 100 miliardi di dollari. SoftBank è stata protagonista di un vero e proprio acquisto selvaggio di titoli della Silicon Valley, di cui esiste certificazione attraverso una documentazione che riporta un lento ma inesorabile allontanamento dal settore telecomunicazioni e un cambiamento radicale dei propri obiettivi, che nel corso degli anni si sono spostati sugli investimenti strategici nelle matricole tecnologiche.
Attraverso l’incrocio di indiscrezioni pubblicate dal Financial Times e dal Wall Street Journal, è emersa la vera (presunta?) natura delle “scommesse” lanciate da SoftBank, il cui fondatore è Masayoshi Son, considerato l’uomo più ricco del Giappone con un patrimonio stimato nel 2018 pari a 21 miliardi di dollari. E cioè una rischiosa speculazione sui derivati, puntando sul rialzo del comparto tecnologico attraverso corposi acquisti di opzioni call, titoli che danno diritto ad acquistare in futuro titoli a un determinato prezzo di fatto, sul Nasdaq. In questo modo, sempre stando a quanto riportato dai quotidiani americani, SoftBank avrebbe successivamente forzato a coprirsi i broker che avevano venduto tali opzioni. In che modo? Acquistando le stesse azioni sul mercato azionario. Un’equazione che ha portato, in buona sostanza, a un rialzo deciso di tutto il comparto. Che però si è rivelato essere una sorta di castello di carta: alto, anzi altissimo, ma… di carta. Un castello che si è disfatto all’inizio di settembre in quella che è stata la peggiore settimana del Nasdaq dal mese di marzo, arrivando a perdere i 5% in una sola seduta (e il 10% nei 4 giorni successivi).
E SoftBank? La plusvalenza incassata attraverso quella che abbiamo definito «la scommessa rischiosa» sarebbe di almeno 4 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dalle indiscrezioni del Financial Times. Ciò nonostante, gli azionisti non avrebbero affatto gradito il tasso così elevato di risk on dell’operazione. Che, peraltro, sarebbe stata decisa e fortemente voluta proprio da Masayoshi Son, con tanto di tensioni all’interno della stessa Softbank, il cui approccio in questo senso sarebbe stato ben lontano da quello del classico asset manager: mica per niente il titolo della società giapponese ha perso più del 7% nella sessione successiva alla pubblicazione di Ft e Wsj, con otto miliardi di valore di mercato andati in fumo.
Una strategia, quella della compagnia giapponese, che ha un nome ben definito: «Positive gamma». Comprare cioè singole azioni di società hi-tech, tra cui Amazon, Microsoft, Netflix, Alphabet, Microsoft e Tesla per poi gonfiarle acquistando opzioni call sui titoli stessi. Portando così sia il Nasdaq Composite che l’S&P 500 a inanellare valori record continui, a cadenza quasi quotidiana, grazie alla forte incidenza rappresentata sui listini da una manciata di titoli tecnologici (i cosiddetti Faang). Un gestore di un hedge fund, rimasto anonimo, l’ha definita una delle operazioni di trading più imponenti degli ultimi vent’anni di attività. Non senza qualche anomalia, peraltro subito notata negli ambienti dell’alta finanza: classica situazione da melt-up, che mette gli investitori nelle condizioni di dover scegliere tra un’occasione da cogliere e un rischio da evitare. Di che valori stiamo palando? 335 miliardi di dollari è la somma complessiva nominale delle opzioni call lanciate sui singoli titoli americani. Secondo Goldman Sachs, il cui rapporto viene riportato dal Financial Times, equivale a una cifra superiore tre volte tanto la media del periodo tra il 2017 e il 2019. Lo strategist di Nomura Charlie McElligott, nel suo commento al giornale britannico, ha confermato che «l’aggressività del buyer misterioso delle call, unita alla fase di stanca nel trading tipica dell’estate, è stata un importante fattore non solo nello scatenare i rialzi di molti nomi dei big tech, ma lo stesso rialzo del mercato azionario Usa».
Commento a cura di Giacomo Iacomino