Turchia: un campanello d’allarme nell’universo dei mercati emergenti?

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Gli investitori sono preoccupati dell’eventualità che la crisi valutaria della Turchia possa destabilizzare i mercati emergenti e l’economia globale. Si tratta tuttavia di una circostanza improbabile.

Per fortuna il contagio tra mercati finanziari non avviene molto spesso, ma si tratta di una magra consolazione per gli investitori in questo momento.
Con la Turchia che vacilla sull’orlo dell’abisso, la preoccupazione è che quello che un tempo era tra i primi Paesi dei mercati emergenti possa ora trascinarne altri con sé, facendo scivolare l’economia globale in una fase recessiva e lasciando i suoi creditori europei pericolosamente esposti.

Quello che al primo sguardo appare evidente non è tuttavia così scontato a un esame più approfondito.
La Turchia si trova di certo in una situazione difficile. Gli elevati debiti in valuta estera, il crescente deficit delle partite correnti e l’impennata dell’inflazione, al 16% e in continuo aumento, sono tutti sintomi di un paese sull’orlo di una crisi della bilancia dei pagamenti molto simile a quelle che hanno regolarmente colpito i mercati emergenti negli anni ’80 e ’90.

Le tensioni tra il Paese membro della NATO e gli USA e le sue aperture diplomatiche di questi ultimi nei confronti
della Russia e dell’Iran minacciano di peggiorare ulteriormente la situazione. Non bisogna tuttavia sopravvalutare l’importanza della Turchia. Innanzitutto, la sua probabile recessione non dovrebbe avere ripercussioni dirette su altre economie. Nonostante le sue strette relazioni con l’Unione europea, una popolazione di 80 milioni di persone e il suo ritmo sostenuto di crescita decennale, la Turchia rimane comunque un attore minore nell’economia globale. Il Paese costituisce appena l’1% del PIL mondiale e soltanto il 2,8% delle esportazioni dell’Eurozona.

Un pericolo maggiore è rappresentato da un’eventuale ondata di default del debito turco. Negli ultimi 10 anni, la Turchia si è indebitata fortemente per finanziare la propria crescita, soprattutto in valuta estera. Il debito pubblico e privato è lievitato da un valore inferiore all’80% del PIL nel 2008 a uno attuale superiore al 100%. E il rafforzamento del dollaro USA e l’aumento dei tassi di interesse statunitensi rendono la restituzione di questi debiti ancora più costosa. Si tratta di un vero grattacapo per le banche europee.

Questi istituti erano infatti creditori entusiasti, in particolare le istituzioni bancarie spagnole e italiane. Chiaramente, la circostanza non è sfuggita alla Banca centrale europea, che ha cominciato a monitorare l’esposizione della regione alla Turchia. Anche in questo caso, comunque, i rischi appaiono gestibili. Le banche spagnole presentano l’esposizione maggiore anche se i loro prestiti alla Turchia costituiscono meno del 5% dei prestiti esteri complessivi. Al secondo posto si posizionano le banche italiane, i cui prestiti al Paese costituiscono appena l’1,9% dei loro crediti internazionali.

Il ruolo fondamentale del sentiment degli investitori

Il modo più semplice per facilitare la diffusione dei timori turchi è lo spostamento del sentiment di mercato. Tra gli investitori c’è sempre la tentazione di raggruppare tutti i Paesi emergenti e di abbandonare in blocco le rispettive valute e classi di attivi ai primi segnali di difficoltà. È un’ipotesi probabile: dopotutto, la Turchia non è stato l’unico Paese il cui governo e le cui imprese hanno approfittato del calo dei tassi di interesse USA per incrementare i prestiti.

È sufficiente però andare un po’ più a fondo per capire che il Paese rappresenta un’eccezione nell’universo dei mercati emergenti, come è emerso anche in occasione del tentato colpo di Stato del 2016, quando ha costituito una delle poche situazioni di instabilità politica nel contesto dei mercati emergenti.

La difficile situazione finanziaria in cui versa è tutt’altro che rappresentativa. Dal 2013, ad esempio, le posizioni delle partite correnti hanno infatti registrato un netto miglioramento nelle economie in via di sviluppo. Nel complesso, l’avanzo delle partite correnti dei mercati emergenti è salito dallo 0,1% allo 0,8% del PIL in quel lasso temporale. Anche in Paesi emergenti che presentano disavanzi, la differenza si è ridotta all’1,7% del PIL rispetto ai valori vicini al 4% registrati durante il taper tantrum del 2013, quando i mercati hanno evidenziato alcune oscillazioni dopo che la Federal Reserve statunitense si è dichiarata intenzionata a ridurre il quantitative easing.

Neanche l’idea secondo cui le aziende dei mercati emergenti siano sommerse dal debito trova conferma nei controlli effettuati. Sicuramente le imprese cinesi hanno ricevuto prestiti importanti ma, escludendole dall’analisi, il quadro non appare così preoccupante: il debito societario, in rapporto al PIL, nei mercati emergenti scende da un valore superiore al 100% ad appena il 48%, superiore di soli 3 punti percentuali rispetto a quanto registrato cinque anni fa. Negli USA è pari al 72%, nell’Eurozona al 100% e in Giappone al 103%.

Un altro fattore incoraggiante è la diminuzione dei prestiti nell’universo dei Paesi in via di sviluppo, Cina inclusa. Il credit gap, ovvero il divario tra i livelli attuali e quelli tendenziali di crescita del debito privato misurato in rapporto al PIL, ha registrato un calo in tutte le economie principali. In Cina il differenziale è sceso da un picco del 27% del PIL al 17%. In Brasile, India e Russia, il gap è persino sceso in territorio negativo. La proporzione di prestiti e obbligazioni societari “rischiosi” nei Paesi in via di sviluppo (esclusa la Cina) è inoltre inferiore rispetto a quanto registrato durante la crisi finanziaria del 2008, secondo uno studio condotto dalla Fed.

Questo dipende in parte dal fatto che molte imprese emittenti di obbligazioni denominate in dollari USA sono attive nelle esportazioni e hanno ricavi prevalentemente denominati in valuta estera. Per tali imprese l’aumento dei costi del debito, causato dal rafforzamento del dollaro, viene controbilanciato dai ricavi extra realizzati oltreoceano.

Un altro fattore trascurato nel recente episodio di turbolenza è che un incremento dei tassi di interesse USA non rappresenta necessariamente uno svantaggio per gli asset o le valute dei mercati emergenti.

Finché la Fed inasprisce la politica monetaria in risposta all’accelerazione della crescita, l’effetto economico sui Paesi in via di sviluppo dovrebbe essere positivo. Lo conferma un’analisi svolta da Barclays: la banca ha riscontrato che in ogni ciclo di innalzamento dei tassi USA dalla metà degli anni ’90, le valute e le obbligazioni dei mercati emergenti tendevano a registrare una sovraperformance rispetto alle loro controparti dei Paesi sviluppati. Lo stesso quadro emerge dal nostro studio.

Chiaramente, se il mondo dovesse ritrovarsi ad affrontare una vera e propria guerra commerciale, la crescita globale crollerebbe precipitosamente. Se invece, come crediamo che sarà, i conflitti sui dazi porteranno a dei miglioramenti nel sistema commerciale mondiale, allora potranno affiorare i solidi fondamentali dei mercati emergenti. Si tratta di un elemento che non potrà essere cambiato nemmeno dai timori sulla Turchia.

A cura di Alain-Nsiona Defise, Head of Emerging Corporates e Mary-Therese Barton, Head of Emerging Market Debt, di Pictet Asset Management

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