Webtax, l’Italia ci riprova

Condividi su linkedin
LinkedIn
Condividi su email
Email
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su facebook
Facebook
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su telegram
Telegram

Se sul piano internazionale manca una soluzione condivisa, nel nostro paese verrà tassato chi fattura almeno 750 milioni di euro annui, di cui 5,5 scaturiti da servizi digitali nel territorio italiano. Ma non mancano dubbi sulla portata del prelievo.

Con la recente manovra di bilancio il governo ha introdotto nell’ordinamento nazionale l’imposta sui servizi digitali. È il secondo tentativo nel giro di un anno di prevedere la cosiddetta “webtax”. Una novità che, per come è stata predisposta la norma, sembra destinata a impattare sulle aziende (e quindi sui professionisti che prestano la loro consulenza) anche diverse da quelle che operano esclusivamente online.

Il tema della giusta tassazione delle multinazionali di internet è un argomento che nell’epoca recente ha assunto una crescente importanza tanto nelle agende politiche dei leader mondiali quanto nell’opinione pubblica. Sebbene si tratti di una partita piuttosto complessa dal punto di vista tecnico, giocata con strumenti di fiscalità internazionale quali stabili organizzazioni e transfer pricing, la questione ha guadagnato una tale rilevanza da abbandonare le scrivanie dei soli addetti ai lavori. I numeri d’altra parte parlano da sé.

Nella sola Unione europea le aziende che operano prevalentemente attraverso internet sviluppano un giro d’affari da oltre 500 miliardi di euro l’anno, con un tasso di crescita che porterà il fatturato oltre quota 700 miliardi già a partire dal 2020. Il fenomeno è ormai irreversibile e viaggia a una velocità supersonica, se paragonata alle tempistiche tipiche delle decisioni politiche e dei processi legislativi che tentano “l’inseguimento”. Basti pensare che nel 2008 tra le venti aziende con la capitalizzazione più elevata al mondo si trovava una sola impresa digitale: oggi sono 9 su 20. Numerosi casi di cronaca, studi e ricerche hanno dimostrato come nel corso del tempo, anche grazie ad accordi fiscali preventivi (tax ruling) talvolta generosamente concessi da alcuni paesi, i giganti del web sono riusciti a pagare imposte sui redditi molto basse, anche inferiori all’1% o addirittura vicine allo “zero virgola”.

D’altra parte gli ordinamenti nazionali, elaborati in epoche diverse, ma comunque tutti molto prima del boom di internet, non consentono agli stati membri di tassare quelle aziende che hanno una presenza fisica minima o inesistente. Senza dimenticare le criticità riguardanti il cosa tassare, posto che la web economy si sostanzia in attività per lo più immateriali. È proprio sfruttando questi “buchi”, nonché i disallineamenti presenti tra le diverse convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni stipulate nel corso dei decenni, che le aziende hanno potuto costituire negli anni schemi di pianificazione fiscale aggressiva. Assicurandosi un risparmio di diversi miliardi di euro all’anno, pur non violando esplicitamente alcuna norma tributaria. Una situazione oggi non più sostenibile sotto il profilo delle esigenze di gettito dei governi nazionali, ma anche per quanto riguarda la leale concorrenza e l’equità sociale.

I lavori dell’Ocse. Problemi globali richiedono soluzioni globali. È questo il “mantra” che ha portato i leader del G-20 a commissionare all’Ocse il pacchetto Beps (acronimo di Base erosion and profit shifting), un maxi-piano contro l’elusione volto a individuare e adottare misure standard e modalità di approccio comuni sulle principali tematiche tributarie cross-border, al fine di prevenire le pratiche elusive e lo spostamento artificioso dei profitti nei paesi a bassa o nulla fiscalità. Il progetto, declinato in 15 raccomandazioni (Actions), dedica particolare attenzione al tema dell’economia digitale. Il tema costituisce l’oggetto della Action 1, nella quale l’organizzazione parigina spiega perché e come le regole fiscali esistenti non sono più al passo con i cambiamenti in atto.

Nel contesto attuale, il business passa attraverso gli intangibles, senza la necessità di una presenza fisica nel paese dove vengono realizzati gli utili, e i profitti possono essere spostati con grande facilità dai gruppi multinazionali. Tassare i redditi laddove questi vengono prodotti dalle aziende high-tech è anche l’obiettivo delle Actions 3 (regime Cfc sulle società controllate estere), 5 (regimi fiscali dannosi), 6 (abuso dei trattati), 7 (stabile organizzazione) e 8-10 (transfer pricing).

Man mano che gli sforzi dell’Ocse sono proseguiti, tuttavia, si sono manifestate alcune divergenze di opinioni. In particolar modo gli Stati Uniti, paese nel quale hanno sede quasi tutte le multinazionali del web, hanno preso le distanze dalle intenzioni degli stati europei, creando una tensione di natura politica che ha frenato l’avanzamento dei lavori. Inoltre, la stessa Ocse è pervenuta alla conclusione che è molto difficile, in un’economia fortemente globalizzata e interrelata, prevedere norme fiscali applicabili esclusivamente al settore digitale, come se questo fosse un “blocco” separato dagli altri comparti economici. Da qui la scelta di concentrare i lavori sulla revisione di concetti già esistenti, quali il c.d. “nexus” e le modalità di attribuzione dei profitti infragruppo in base ai rischi e alle funzioni effettivamente in capo a ciascuna società presente nelle diverse giurisdizioni. La proposta di soluzione condivisa dovrebbe arrivare nel 2020, sempre che nel frattempo Vecchio e Nuovo continente trovino dei punti d’intesa. L’Ocse ha ammonito i legislatori nazionali riguardo all’adozione di misure individuali e temporanee, che rischierebbero di agire in maniera non coordinata tra loro, comportando difficoltà operative per le aziende, per i professionisti e per gli stessi verificatori.

La proposta dell’Ue. Pur cercando di rimanere quanto più in linea possibile con i lavori dell’Ocse, anche Bruxelles ha messo a punto la sua webtax. Spinta dalla pressione di diversi stati membri, desiderosi di potersi assicurare quanto prima il gettito derivante dai profitti delle impese digitali realizzati sui propri confini ma tassati altrove, l’Ue ha presentato la sua proposta il 21 marzo 2018, con lo scopo di avere un approccio coordinato quanto meno tra i 28 paesi dell’Unione. La Commissione europea ha articolato il pacchetto in due misure: una di ampio respiro, finalizzata a riformare le norme in materia di imposta sulle società, in modo che gli utili siano registrati e tassati nel luogo in cui le imprese hanno un’interazione significativa con gli utenti attraverso i canali digitali; un’altra di breve termine, costituita dall’introduzione di un’imposta temporanea da prelevare sui ricavi delle principali attività digitali delle imprese. La prima misura agisce cioè sulle regole di determinazione del reddito, richiede un lavoro preparatorio più lungo ed è più mirata.

La seconda colpisce invece il fatturato, ha il vantaggio di essere più immediata e, sebbene in maniera meno precisa, fa sì che le attività attualmente non tassate inizierebbero a generare un gettito per gli Stati membri. In entrambi i casi vengono previsti limiti dimensionali, soggettivi e oggettivi, per definire il perimetro operativo delle imposte. Entrambe le proposte sono ora al vaglio delle istituzioni comunitarie (Consiglio Ue e Parlamento europeo), peraltro destinate a essere rinnovate con le elezioni in programma tra pochi mesi. Si aggiunga il fatto che in sede Ecofin perfino all’interno dei Ventotto si sono registrate difformità di opinione tra paesi, in una sede che invece richiede l’unanimità. I tempi si preannunciano quindi inevitabilmente lunghi.

Entrambe le proposte sono ora al vaglio delle istituzioni comunitarie (Consiglio Ue e Parlamento europeo), peraltro destinate a essere rinnovate con le elezioni in programma tra pochi mesi. Si aggiunga il fatto che in sede Ecofin perfino all’interno dei Ventotto si sono registrate difformità di opinione tra paesi, in una sede che invece richiede l’unanimità. I tempi si preannunciano quindi inevitabilmente lunghi.

La soluzione italiana. In attesa che la nebbia in cui è avvolta la webtax si schiarisca sui cieli internazionali, la legge n. 145/2018 (commi da 35 a 50) ha introdotto in Italia un’imposta sui servizi digitali. Contestualmente, è stata abrogata l’analoga misura recata dalla precedente manovra di bilancio, il cui debutto era previsto per il 1° gennaio 2019, ma rimasta lettera morta a seguito della mancata emanazione dei provvedimenti attuativi. Il nuovo prelievo ha natura indiretta e inciderà sui ricavi. Pertanto, anche alla luce delle soglie dimensionali prescelte, si presenta come molto simile alla soluzione provvisoria avanzata da Bruxelles.

L’imposta risulterà applicabile ai soggetti che prestano servizi digitali e che hanno un fatturato globale pari ad almeno 750 milioni di euro annui, di cui una quota minima di 5,5 milioni realizzati nel territorio italiano grazie alla prestazione di servizi digitali. Sarà un decreto ministeriale, da emanare entro il 1° maggio 2019, a stabilire con maggiore precisione chi è coinvolto dal prelievo e chi no. In ogni caso, la normativa primaria già fornisce una prima definizione di che cosa si intende per servizi digitali tassabili, vale a dire: veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale, che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.

Per come si configura, la norma pare dunque abbracciare i motori di ricerca che veicolano messaggi promozionali, i social network, le piattaforme di sharing economy in cui domanda e offerta di beni e servizi sono forniti da utenti privati, i marketplace per la vendita di merce. Tuttavia, non sono mancati tra i professionisti e gli operatori i dubbi circa la reale portata del prelievo, che in taluni casi potrebbe interessare anche altri business più “tradizionali” che fanno della rete un canale aggiuntivo, per quanto minoritario, delle proprie vendite (per esempio l’editoria). Non mancano nemmeno gli scettici secondo cui la webtax “all’italiana” comporterà un inevitabile aumento dei prezzi, dal momento che i grandi player della rete potrebbero far valere la propria posizione dominante nel rapporto contrattuale, imponendo un mark-up alle controparti. L’imposta sarà pari al 3% dei ricavi tassabili realizzati in ciascun trimestre, assunti al lordo dei costi e al netto dell’Iva. Il debutto del tributo avverrà decorsi 60 giorni dalla pubblicazione del decreto attuativo.

A cura di Valerio Stroppa

Condividi su linkedin
LinkedIn
Condividi su email
Email
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su facebook
Facebook
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su telegram
Telegram

Non perdere le notizie sui mercati e gli investimenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *